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Il punto della Cassazione sulla configurazione del trasferimento di ramo d’azienda

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Con l’ordinanza n. 33734 del 4 dicembre 2023, la Corte di Cassazione ha fornito alcune precisazioni in ordine al trasferimento di ramo d’azienda e alla sua configurazione.

IL CASO

La società Alfa concludeva un contratto di trasferimento di ramo di azienda con la società Beta, cedendole anche i rapporti di lavoro dei suoi dipendenti; in conseguenza del negozio traslativo, ritenuto illegittimo, era conseguito il loro licenziamento, in violazione della normativa in tema di licenziamenti collettivi. I lavoratori agivano in giudizio al fine di sentire accertare e dichiarare la nullità e/o inefficacia della cessione di ramo di azienda, nonché la illegittimità della cessione dei loro contratti di lavoro non ravvisandosi una ipotesi di trasferimento di azienda ex art. 2112 c.c., con declaratoria della permanente sussistenza dei loro rapporti di lavoro con la società Alfa. Inoltre, domandavano che fosse dichiarata la nullità e/o inefficacia e/o annullabilità e/o illegittimità dei licenziamenti intimati dalla suddetta società con condanna alla immediata reintegrazione ovvero, in ogni caso, alla riammissione nel posto di lavoro. Il Tribunale rigettava la domanda di impugnazione dei licenziamenti e dichiarava la nullità del contratto di cessione di ramo di azienda intercorso tra le società, condannando la società Alfa a ripristinare i rapporti di lavoro, riammettendo in servizio i dipendenti. I giudici del gravame confermavano la sentenza del Tribunale evidenziando che: • oggetto della cessione era stato un ramo di azienda dematerializzato; • che i dipendenti ceduti non avevano uno specifico know-how ovvero legami organizzativi preesistenti alla cessione; • che nella cessione erano confluite attività disomogenee e che non era stata fornita prova che i reparti e le attività cedute costituissero in concreto una entità economica a sé stante.

LA CENSURA

La società Alfa si rivolgeva alla Suprema Corte denunciando, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e, segnatamente, dell’art. 2112 c.c. e degli artt. 115 co. 1 e 116 co. 1 c.p.c., per avere la Corte territoriale valutato o omesso di valutare, erroneamente, circostanze dirimenti ai fini della decisione (come il fatto che i lavoratori trasferiti non fossero un gruppo professionalmente coeso e avessero tra di loro legami organizzativi preesistenti la cessione e uno specifico know-how), giungendo in tal modo alla errata conclusione che il trasferimento del ramo di azienda, nel caso in esame, non rientrava nel campo di applicazione dell’art. 2112 c.c.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Cassazione dava torto alla società Alfa. I giudici di piazza Cavour specificavano che “In tema di trasferimento di ramo d'azienda, la verifica della sussistenza dei presupposti dell'autonomia funzionale e della preesistenza, ma anche di ogni qualsiasi altro requisito, rilevanti ai sensi dell'art. 2112, comma 5, c.c., integra un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, censurabile per cassazione alla stregua dell'art. 360, n. 3, c.p.c., laddove alla fattispecie, così come accertata dal giudice di merito, sia stata applicata una norma dettata per disciplinare ipotesi diverse (cd. vizio di sussunzione), ovvero sulla base dell'art. 360, n. 5, c.p.c., nell'ipotesi in cui sia stato omesso l'esame di un fatto decisivo per il giudizio, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che sia stato oggetto di discussione tra le parti”. Nella fattispecie esaminata, i giudici di legittimità non rilevavano alcun vizio di sussunzione, né un omesso esame di un fatto decisivo, in quanto i giudici d’appello avevano precisato, da un lato, che il ramo ceduto “servizi generali e di gestione delle infrastrutture aziendali”, fosse un ramo di azienda cosiddetto dematerializzato, dacché comprensivo solamente dei lavoratori e non anche di beni materiali e, dall’altro, che non era stato provato che tale gruppo di dipendenti fosse professionalmente coeso e che i suoi componenti avessero legami organizzativi preesistenti alla cessione ed uno specifico know how in modo da potere essere individuati come una unità funzionale ontologicamente in grado di produrre beni o servizi e non come mera somma di dipendenti. Inoltre, gli Ermellini richiamavano consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui “Un complesso di servizi - privi di struttura aziendale autonoma e preesistente che restino disomogenei per funzioni svolte e professionalità coinvolte, non integrati tra loro e privi di coordinamento unitario- non costituisce ramo d'azienda ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., senza che assuma rilievo, al fine di ravvisare un valido fenomeno traslativo, la mera decisione, assunta dal cedente, di unificare alcuni beni e lavoratori, affidando a questi un'unica funzione al momento del trasferimento, la cui considerazione in termini di sufficienza si porrebbe in contrasto sia con le direttive CE nn. 1998/50 e 2001/23 - che richiedono già prima di quest'atto "un'entità economica che conservi la propria identità" - sia con gli articoli 4 e 36 Cost., che impediscono di rimettere discipline inderogabili di tutela dei lavoratori ad un mero atto di volontà del datore di lavoro, insindacabile per l'assenza di riferimenti oggettivi. Infatti, per "ramo d'azienda", ai sensi dell'art. 2112 cod. civ. (come sostituito dalla prima parte dell'art. 32 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276), deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile, la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, il che presuppone, comunque, una preesistente entità produttiva funzionalmente autonoma (potendo conservarsi solo qualcosa che già esiste), e non anche una struttura produttiva creata "ad hoc" in occasione del trasferimento o come tale unicamente identificata dalle parti del negozio traslativo, dovendosi ritenere preclusa l'esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici ovvero di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell'imprenditore e non dall'inerenza del rapporto ad una entità economica dotata di autonoma ed obiettiva funzionalità” (Cass. n. 8757/2014). In virtù dei suddetti principi, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Somministrazione irregolare e invalidità del licenziamento inflitto dal somministratore

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Con la sentenza n. 30945 del 7 novembre 2023, la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di somministrazione irregolare stabilendo che in tali situazioni il licenziamento del lavoratore è da considerarsi invalido se comminato dal somministratore piuttosto che dall’utilizzatore.

IL CASO

La Corte d'appello di Roma, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra Tizio e la società Alfa e ordinava alla predetta società la ricostituzione del rapporto di lavoro, condannando la stessa al pagamento di una indennità pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre accessori. In particolare, i giudici di secondo grado, sulla base delle risultanze delle prove testimoniali e documentali acquisite, riteneva il licenziamento intimato dalla società Alfa irrogato da soggetto privo della titolarità del rapporto e dunque del potere di risolvere il contratto, con conseguente persistenza del rapporto lavorativo e obbligo del predetto Gestore alla ricostituzione del rapporto di lavoro. Pertanto, ricorrendo una ipotesi di somministrazione di manodopera non autorizzata, e dunque in violazione dei limiti imposti dal Decreto Legislativo n. 276 del 2003, articoli 20 e 21, considerava applicabile la Legge n. 183 del 2010, articolo 32 e condannava la società al pagamento dell'indennità onnicomprensiva pari a 12 mensilità.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La società Alfa si rivolgeva alla Suprema Corte che, però, le dava torto. I giudici di legittimità precisavano che “In tema di somministrazione irregolare, il Decreto Legge n. 34 del 2020, articolo 80 bis conv., con modif., dalla L. n. 77 del 2020 - ove è previsto che il Decreto Legislativo n. 81 del 2015, articolo 38, comma 3, secondo periodo ai sensi del quale tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o gestione del rapporto si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione, si interpreta nel senso che tra gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro non è compreso il licenziamento - deve qualificarsi come norma di interpretazione autentica, in quanto, chiarendo la portata della norma interpretata, intervenendo, con effetti retroattivi, su quei profili applicativi che avevano dato luogo ad incertezze, prescrive una regola di giudizio destinata ad operare in termini generali per le controversie già avviate come per quelle future”. Di conseguenza, il licenziamento irrogato dal somministratore non estingue il rapporto che intercorre fra il lavoratore e l’utilizzatore. Inoltre, gli Ermellini ritenevano infondato l'assunto di violazione dell'articolo 384 c.p.c., in quanto “A norma dell'articolo 384 c.p.c., comma 1, l'enunciazione del principio di diritto vincola il giudice di rinvio che ad esso deve uniformarsi, anche qualora, nel corso del processo, siano intervenuti mutamenti della giurisprudenza di legittimità, sicché anche la Corte di Cassazione, nuovamente investita del ricorso avverso la sentenza pronunziata dal giudice di merito, deve giudicare sulla base del principio di diritto precedentemente enunciato, e applicato dal giudice di rinvio, senza possibilità di modificarlo, neppure sulla base di un nuovo orientamento giurisprudenziale della stessa Corte, salvo che la norma da applicare in relazione al principio di diritto enunciato risulti successivamente abrogata, modificata o sostituita per effetto di "jus superveniens", comprensivo sia dell'emanazione di una norma di interpretazione autentica, sia della dichiarazione di illegittimità costituzionale” (v. Cass. n. 27155 del 2017; n. 6086 del 2014; n. 13873 del 2012). In virtù di ciò, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso della società Alfa.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Reperebilità notturna del lavoratore: non è lavoro straordinario

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Con la sentenza n. 32418 del 22 novembre 2023, la Corte di Cassazione ha precisato che le ore di reperibilità notturna non vanno pagate con le maggiorazioni contemplate per il lavoro straordinario, bensì con un’indennità, in quanto il lavoratore in quel lasso di tempo non esercita alcuna effettiva attività lavorativa.

IL CASO

I giudici d’appello confermavano la sentenza del Tribunale di rigetto delle domande di alcuni lavoratori lavoratori, vigili del fuoco presso una base militare. Le domande azionate erano volte a ottenere la condanna del datore di lavoro alla modifica della turnazione di lavoro e alla corresponsione delle maggiorazioni previste per il lavoro straordinario per le 8 ore di prestazione notturna svolte per ogni turno di lavoro, con detrazione dell'indennità di pernottamento percepita, previa declaratoria di nullità degli artt. 18 e 54 delle Condizioni di impiego (Normativa per il personale civile non statunitense delle FF. AA. USA in Italia, stipulato con le rappresentanze sindacali ed assimilabile, per quanto qui rileva, a contratto collettivo nazionale di lavoro). I giudici di secondo grado ritenevano non fondata la rivendicazione degli appellanti, nel senso che tale pernottamento sul luogo di lavoro, remunerato con indennità di pernottamento, dovesse essere considerato orario di lavoro effettivo, e, contrariamente, ritenevano si trattasse di periodo di riposo intermedio.

LA CENSURA

I lavoratori proponevano ricorso in Cassazione deducendo la nullità della sentenza impugnata, ex art. 360, n. 4, c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 1 d. lgs. n. 66/2003, ed erroneità e contraddittorietà della motivazione della sentenza, relativamente all'interpretazione della nozione di orario di lavoro operata dalla Corte distrettuale, che aveva qualificato il pernottamento presso la base militare in termini di disagio e non di orario di lavoro, anche in relazione ad altri contratti collettivi (non prodotti) e alla giurisprudenza dell’Unione europea in materia. I ricorrenti asserivano che, in base ai principi espressi dalla Corte di Giustizia UE, i periodi di reperibilità, anche senza permanenza sul luogo di lavoro, devono essere qualificati come orario di lavoro; a maggior ragione, se il lavoratore è obbligato alla presenza fisica sul luogo indicato dal datore di lavoro, manifestando una sostanziale disponibilità nei confronti di quest’ultimo, al fine di intervenire immediatamente in caso di necessità. Inoltre, evidenziavano che, secondo la nozione UE, la definizione di orario di lavoro va intesa in opposizione a quella di riposo, con reciproca esclusione delle due nozioni.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

I giudici di legittimità confermavano quanto statuito dai giudici di merito, pertanto davano torto ai lavoratori ricorrenti. Gli Ermellini sottolineavano che il periodo di guardia presso il datore di lavoro, deve ritenersi, ai fini della retribuzione, quale periodo durante il quale non viene di regola svolto alcun lavoro effettivo, rispetto ai periodi nel corso dei quali vengono realmente effettuate delle prestazioni di lavoro, e che il mancato pagamento di detta porzione dell’orario lavorativo quale lavoro straordinario, non risulta contrario alla normativa europea e nazionale. L'obbligo di essere fisicamente presente nel luogo stabilito dal datore di lavoro è di natura tale da limitare in modo oggettivo la possibilità del lavoratore di dedicarsi ai propri interessi personali e sociali, pertanto le ore di guardia devono essere ritenute come orario di lavoro. In tali casi, chiarivano i giudici di piazza Cavour, al prestatore di lavoro spetta soltanto un’indennità, piuttosto che le maggiorazioni previste per il lavoro straordinario. Per la Suprema Corte, la ricostruzione dei ricorrenti in termini di dicotomia tra orario di lavoro e periodo di riposo, in base alla normativa dell’Unione europea, come interpretata dalla Corte di Giustizia e come attuata nella normativa italiana, era condivisibile, ma non determinava l’accoglimento della domanda. In virtù di ciò, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso dei lavoratori e condannava questi ultimi alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Il datore deve provare l’impossibilità di repechage

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La mancata dimostrazione, a carico del datore di lavoro, dell’impossibilità del repêchage, ossia di una proficua riutilizzazione del lavoratore in mansioni corrispondenti al proprio livello di inquadramento contrattuale o anche a mansioni inferiori tenendo conto, peraltro, non di tutti i compiti astrattamente attribuibili al dipendente ma solamente di quelli coerenti con il proprio bagaglio tecnico professionale, determina l’illegittimità del licenziamento del lavoratore. Tale principio è stato enunciato dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 30102 del 30 ottobre 2023.

IL CASO

I giudici d’appello, in riforma della sentenza appellata dall’associazione Alfa, rigettavano l'impugnativa di licenziamento per giustificato motivo oggettivo proposta da Sempronia condannando la parte appellata alla rifusione delle spese del doppio grado di giudizio. I giudici di secondo grado rilevavano che la contrazione dell'attività dell'associazione che gestiva una casa di riposo era dimostrata dalle prove in atti, in particolare dal prospetto statistico relativo alla media degli ospiti presenti in struttura redatto dalla testimone Caia, segretaria amministrativa; in base a ciò, poteva ritenersi confermata la progressiva riduzione nel corso del tempo dell'afflusso di anziani presenti nella casa di riposo, tenuto conto degli standard organizzativi prescritti dalla convenzione stipulata con il Comune Beta (un ausiliario ai servizi tutelari per 15 utenti per 2 turni). Non valeva a smentire tale assunto la circostanza accertata in giudizio circa l'impiego stabile, nella funzione di assistente tutelare, di personale della cooperativa cui erano stati esternalizzati solo i servizi di pulizia, trattandosi di un modus operandi in atto già da prima del licenziamento di Sempronia.

LA CENSURA

A questo punto, Sempronia si rivolgeva alla Suprema Corte deducendo, in particolare, la violazione e la falsa applicazione degli articoli 3 e 5 della Legge 604/1966, relativamente all'articolo 360, n. 3 c.p.c. ed in subordine in relazione ai nn. 4 e 5, per non avere la Corte territoriale accertato l'impossibilità del repêchage ovvero di una differente collocazione della dipendente licenziata nonostante il contenuto del ricorso introduttivo e della sentenza di primo grado (che aveva correttamente concluso, sul punto, nel senso che il datore di lavoro non aveva fornito la prova dell’impossibilità del repêchage). Resisteva con controricorso l’associazione Alfa.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Cassazione dava ragione alla lavoratrice Sempronia. I giudici Ermellini specificavano che “Il giustificato motivo oggettivo è composto da tre elementi fondamentali: la soppressione del posto di lavoro in forza di una ragione organizzativa; il nesso causale tra la ragione addotta, la soppressione del posto e il lavoratore licenziato; la dimostrazione, a carico del datore di lavoro, della impossibilità del repêchage, e cioè di una proficua riutilizzazione del lavoratore in mansioni corrispondenti al proprio livello di inquadramento contrattuale o anche a mansioni inferiori tenendo in considerazione, peraltro, non tutti compiti astrattamente attribuibili al dipendente ma solo quelli coerenti con il proprio bagaglio tecnico professionale. La carenza anche soltanto di uno di questi elementi (o di più di uno) determina l’illegittimità del licenziamento”. Nella vicenda esaminata, non era stato riscontrato alcun accertamento sull’impossibilità del repêchage, né poteva considerarsi fondata la tesi formulata in proposito nel controricorso, secondo cui i giudici d’appello avrebbero escluso la possibilità di un repêchage in modo implicito, avendo accertato la diminuzione dei ricoveri e della contrazione dell'attività ed avendo tenuto conto, ai fini occupazionali, degli standard organizzativi prescritti dalla convenzione stipulata con il Comune Beta (un ausiliario ai servizi tutelari per 15 utenti per 2 turni). I giudici di legittimità chiarivano che il repêchage richiede un accertamento in concreto dell’organico presente in azienda all’epoca del licenziamento, piuttosto che la conformità a degli standard astratti e della impossibilità di una utile ricollocazione del dipendente in mansioni, anche inferiori, confacenti con il suo bagaglio professionale. L’accertamento in questione non era stato effettuato dalla Corte, la quale si era soffermata sul numero degli utenti e degli addetti standard, senza invece esprimersi sulle unità lavorative presenti in azienda. Dal canto suo, l’associazione controricorrente si era limitata a sostenere che Sempronia non aveva indicato l'esistenza di una posizione lavorativa disponibile, senza tuttavia considerare che, secondo l’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, mentre incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell'esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l'impossibilità del cd. "repechage", ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore (Cass. 12101/2016), restando escluso alcun onere di allegazione e prova in capo al lavoratore (Cass. n. 24882/2017). In virtù di ciò, il Tribunale Supremo accoglieva la censura della lavoratrice Sempronia.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Condizioni lavorative stressogene e responsabilità del datore

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La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 28923 del 18 ottobre 2023, si è pronunciata sulla responsabilità datoriale in caso di condizioni stressogene che il dipendente patisce sul posto di lavoro.

IL CASO

I giudici del gravame respingevano l'appello principale di Tizia e l'appello incidentale della società Alfa, confermando la pronuncia di primo grado che aveva condannato la società datoriale al risarcimento del danno da demansionamento (pari al 30% della retribuzione percepita dal 2007 al 2018 e al 70% della retribuzione relativa al periodo successivo e fino alle dimissioni) e del danno biologico (valutato in 6 punti percentuali e con personalizzazione al 40%, oltre che per inabilità temporanea), nonché alla corresponsione della indennità sostituiva del preavviso in ragione della giusta causa delle dimissioni rassegnate dalla dipendente (con rigetto delle residue domande, di riconoscimento di mansioni superiori di natura dirigenziale e di risarcimento del danno da perdita di chance, del danno pensionistico, del danno morale ed esistenziale). La Corte distrettuale: • escludeva la configurabilità della fattispecie del mobbing, per difetto di prova di un disegno persecutorio nei confronti della lavoratrice, ritenendo, invece, che la superiore gerarchica, Caia, avesse posto in essere un progressivo e generalizzato svuotamento delle mansioni dei colleghi, non soltanto quindi in danno della ricorrente, ma anche di altri dipendenti che, al pari della stessa, avevano rassegnato le dimissioni ritenendo "intollerabili le condizioni lavorative e l'ambiente creato dalla superiore"; • negava il risarcimento del danno da perdita di chance (preteso fino alla data del pensionamento) per la genericità delle allegazioni della lavoratrice, consistenti in "mere illazioni e/o supposizioni, del tutto astratte"; • negava il risarcimento del danno esistenziale mancando qualsiasi "indicazione circa le opportunità perdute" da Tizia.

LA CENSURA

Tizia proponeva ricorso in Cassazione lamentando, in particolare, la violazione dell'art. 2087 c.c. relativamente al mancato accertamento, da parte della Corte territoriale, del carattere vessatorio e mortificante dei comportamenti subiti dalla lavoratrice. Pure escluso l'elemento persecutorio necessario per poter configurare una condotta mobbizzante, il giudice di secondo grado avrebbe dovuto ritenere integrata la violazione dell'art. 2087 c.c. per la antigiuridicità, la dannosità e la vessatorietà dei comportamenti datoriali causativi di conseguenze devastanti sulla salute psico-fisica di Tizia e sulla sua condizione patrimoniale e lavorativa.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Cassazione dava torto alla lavoratrice. I giudici Ermellini richiamavano consolidato principio della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale “In tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di "mobbing", per l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell'art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi” (Cass. n. 3692 del 2023; n. 33639 del 2022; n. 33428 del 2022). Nella vicenda esaminata, la sentenza d'appello dava atto che il giudice di prime cure avesse riconosciuto che il comportamento tenuto dall'Azienda nei confronti di Tizia (di cui il demansionamento costituiva solo un aspetto), pur non costituendo mobbing, per difetto di intento persecutorio nei confronti della dipendente; tuttavia, aveva determinato un danno alla salute ed all'integrità psicofisica della stessa. Il risarcimento del danno alla salute era stato riconosciuto quale conseguenza della complessiva condotta datoriale, non limitata al demansionamento, ma, evidentemente, giudicata illegittima per violazione dell'art. 2087 c.c. Nè la ricorrente aveva in alcun modo dedotto e argomentato la riferibilità del danno alla salute liquidato ad altra e diversa causale giuridica. Pertanto, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso della lavoratrice.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'