Con l’ordinanza n. 20884 del 18 luglio 2023, la Corte di Cassazione ha stabilito che l’acquisto di un immobile per usucapione può essere provato anche mediante la prova testimoniale, e che, a tal fine, non occorre alcuna conferma o supporto documentale dell’esercizio del possesso.
In altri termini, “La prova dell'acquisto per usucapione della proprietà o di altro diritto reale su bene immobile, in quanto vertente su una situazione di fatto, non incontra alcuna limitazione nelle norme concernenti gli atti soggetti a forma scritta, “ad substantiam” o “ad probationem”, e, pertanto, può essere fornita per testimoni, non occorrendo alcuna conferma o supporto documentale dell’esercizio del possesso”.
Secondo i giudici di legittimità, il giudizio di rilevanza della prova non può essere condizionato dalla mancanza di riscontri documentali dei fatti da accertare, bensì deve essere effettuato esclusivamente sulla base del contenuto dei capitoli di prova in rapporto ai termini della controversia.
Per gli Ermellini, “L'ammissione di una prova testimoniale non può essere negata in considerazione del suo probabile esito negativo, per l'inverosimiglianza del fatto che si intende provare o per una pretesa inidoneità del teste a fare un resoconto preciso su di esso”.
Il Tribunale Supremo ha anche specificato che al giudice di merito è preclusa la possibilità di respingere la domanda per carenza di prova, senza in alcun modo pronunciare sulle istanze istruttorie volte a dimostrare la fondatezza delle tesi proposte in giudizio.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
A quali componenti retributive si applica il principio di irriducibilità?
A tale interrogativo ha fornito risposta la Suprema Corte con l’ordinanza n. 23205 del 31 luglio 2023.
La vicenda traeva origine dal rigetto, da parte dei giudici di merito, della domanda di Tizio, il quale aveva proposto ricorso per domandare la condanna della società datrice al pagamento di 84.000,00 euro in ordine ad una serie di fringe benefits che gli erano stati revocati durante il rapporto di lavoro.
I giudici di secondo grado rilevavano che i predetti benefit non rientrassero nella nozione di retribuzione compensativa della prestazione e perciò irriducibile.
A questo punto, Tizio si rivolgeva alla Corte di Cassazione, la quale rigettava il ricorso del lavoratore.
Secondo i giudici Ermellini, il livello retributivo acquisito dal lavoratore subordinato, per il quale opera la garanzia dell’irriducibilità della retribuzione, contemplata dall'art. 2103 c.c., deve essere sì determinato con il computo della totalità dei compensi corrispettivi erogati, ma tenendo conto delle qualità professionali intrinseche alle mansioni del lavoratore, ossia afferenti alla professionalità tipica della qualifica rivestita.
I trattamenti di miglior favore altro non sono che componenti aggiuntive ai minimi tabellari e non sono coperti dalla tutela dell'art. 36 Cost.
La loro eliminazione non contrasta con il principio di irriducibilità della retribuzione, previsto dall'art. 2103 c.c.
Difatti, non vi sono compresi i compensi erogati in ragione di particolari modalità della prestazione lavorativa o collegati a specifici disagi o difficoltà, i quali non spettano allorché vengano meno le situazioni cui erano collegati.
Sostanzialmente, “Il principio di irriducibilità della retribuzione che implica che la retribuzione concordata al momento dell'assunzione non sia riducibile neppure a seguito di accordo tra il datore e il prestatore di lavoro e che ogni patto contrario è nullo in ogni caso in cui il compenso pattuito anche in sede di contratto individuale venga ridotto va tuttavia coordinato con il legittimo esercizio, da parte del datore di lavoro, dello “ius variandi”. In tal caso la garanzia della irriducibilità della retribuzione si estende alla sola retribuzione compensativa delle qualità professionali intrinseche essenziali delle mansioni precedenti, ma non a quelle componenti della retribuzione che siano erogate per compensare, come detto, particolari modalità della prestazione lavorativa”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con la sentenza n. 1514 del 25 gennaio 2021 la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in tema del licenziamento nullo, in quanto “ritorsivo”.
In particolare, il Tribunale Supremo ha affermato che il licenziamento è nullo per motivo ritorsivo quando esso “costituisce l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale. Il motivo illecito può ritenersi esclusivo e determinante quando il licenziamento non sarebbe stato intimato se esso non ci fosse stato, e quindi deve costituire l’unica effettiva ragione del recesso, indipendentemente dal motivo formalmente addotto. L’esclusività sta a significare che il motivo illecito può concorrere con un motivo lecito, ma solo nel senso che quest’ultimo sia stato formalmente addotto, ma non sussistente nel riscontro giudiziale”.
Gli Ermellini hanno voluto anche affrontare la questione delle cosiddette “ragioni inerenti l’attività produttiva” che legittimerebbero il giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
Secondo consolidato orientamento di legittimità, la ragione inerente all'attività produttiva (art. 3 legge n. 604 del 1966) è quella che determina un effettivo ridimensionamento riferito alle unità di personale impiegate in una ben individuata posizione lavorativa, indipendentemente dall’esistenza di situazioni economiche sfavorevoli o di crisi aziendali.
La modifica della struttura organizzativa che legittima l'irrogazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo può essere colta non soltanto nell’esternalizzazione a terzi dell'attività alla quale è addetto il lavoratore licenziato, ma anche nella soppressione della funzione cui il lavoratore è adibito sia nella innovazione tecnologica che rende superfluo il suo apporto, sia nel perseguimento della migliore efficienza gestionale o produttiva o dell'incremento della redditività.
Inoltre, secondo la Suprema Corte, l'andamento economico negativo dell'azienda non è un presupposto fattuale che il datore di lavoro deve necessariamente provare, dal momento che è sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro, incluse quelle volte ad una migliore efficienza gestionale o ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo mediante la soppressione di un’individuata posizione lavorativa.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con l'ordinanza n. 2631 del 4 febbraio 2021 la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che è valido l’accordo con cui il cliente e il professionista concordano un compenso maggiore rispetto a quello previsto dai tariffari. Ciò è perfettamente in linea con quanto disposto dall'art. 2233 c.c., secondo cui “Il compenso, se non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe o gli usi, è determinato dal giudice. In ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all'importanza dell'opera e al decoro della professione. Sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali”.
La vicenda traeva origine dal fatto che Tizio, convenendo in giudizio il suo avvocato, domandava che venisse dichiarata la nullità della scrittura privata conclusa fra di loro, poiché integrava la fattispecie del patto di quota lite ed inoltre chiedeva la conseguente condanna del convenuto a restituire quanto percepito in più rispetto a quanto dovuto ai sensi del tariffario.
Il Giudice di prime cure rigettava le domande dell’attore, in quanto le parti, con una scrittura successiva a quella suindicata, convenivano espressamente di riconoscere al professionista la maggiore somma pattuita.
Tizio impugnava così la sentenza, ma secondo i Giudici di merito, le domande dell’appellante volte ad una determinazione del corrispettivo dovuto all'avvocato in misura diversa da quella corrisposta, non potevano trovare accoglimento, in quanto, nel caso in esame, doveva essere applicata la norma di cui all'art. 2233 cod. civ., in forza della quale può farsi luogo a determinazione del compenso soltanto se questo non sia stato convenuto dalle parti.
A questo punto, il caso giungeva in Cassazione, che rigettava il ricorso stabilendo che “In tema di compensi spettanti ai prestatori d'opera intellettuale, l'art. 2233 cod. civ. pone una gerarchia di carattere preferenziale, indicando in primo luogo l'accordo delle parti ed in via soltanto subordinata le tariffe professionali, ovvero gli usi: le pattuizioni tra le parti risultano dunque preminenti su ogni altro criterio di liquidazione (Cass., Sez. II, 23 maggio 2000, n. 6732; Cass., Sez. VI-2, 29 dicembre 2011, n. 29837; Cass., Sez. III, 6 luglio 2018, n. 17726) ed il compenso va determinato in base alla tariffa ed adeguato all'importanza dell'opera soltanto in mancanza di convenzione. In particolare, in materia di onorari di avvocato deve ritenersi valida la convenzione tra professionista e cliente che stabilisce la misura degli stessi in misura superiore al massimo tariffario (Cass., Sez. II, 5 luglio 1990, n. 7051; Cass., Sez. II, 10 ottobre 2018, n. 25054), vigendo il principio di ammissibilità e validità di convenzioni aventi ad oggetto i compensi dovuti dai clienti agli avvocati, anche con previsione di misure eccedenti quelle previste dalle tariffe forensi (cfr. Cass., Sez. Un., 26 febbraio 1999, n. 103)”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con l’ordinanza n. 2830 del 05 febbraio 2021 la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di sinistri stradali, stabilendo che, qualora un motociclista subisca un incidente a causa di buche stradali non segnalate e non visibili, l’ente titolare del tratto stradale è tenuto a risarcirgli i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti.
Nel caso in esame, un motociclista conveniva l’Anas innanzi al Tribunale di Arezzo, sezione distaccata di Sansepolcro, domandando la condanna al risarcimento dei danni, ai sensi dell’art. 2051 c.c., per un sinistro subito in data 6 settembre 2003. L’uomo, mentre percorreva la SS E45 a bordo di una motocicletta, a causa di una buca stradale non segnalata, né visibile, perdeva il controllo del mezzo e cadeva a terra, riportando sia danni patrimoniali che danni non patrimoniali. L’Ente titolare del tratto stradale si costituiva per resistere alla domanda. Il Tribunale, ritenendo l’Anas responsabile dell’incidente, condannava l’Ente al pagamento dell’importo di 25.396,15 euro, oltre le spese legali.
La Società impugnava la decisione del Giudice di prime cure, ma la Corte distrettuale di Firenze respingeva il gravame, condannando l’appellante alle spese del grado. A questo punto, la vicenda approdava in Cassazione, davanti alla quale l’ANAS sollevava cinque motivi, mentre il motociclista resisteva con controricorso.
Il Tribunale Supremo, dichiarando inammissibile il ricorso, condannava l’Anas al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente.
In particolare, gli Ermellini affermavano che il Giudice d’Appello, oltre alle deposizioni testimoniali, aveva ben valutato le risultanze del verbale redatto dalle forze dell'ordine accorse al momento dell’incidente, dal quale risultava la “presenza dell'avvallamento sulla corsia di marca della moto, in prossimità del quale vi erano segni di scarrocciamento, costituito da una grossa buca terminante con un accumulo d'asfalto”.
Per i Giudici di legittimità si trattava di un accertamento in fatto relativo alla condizione del fondo stradale, alla prevedibilità dell'insidia, nonché all'inadempimento dell'onere di vigilanza e manutenzione della strada da parte dell'ente Anas che, pertanto, non poteva essere oggetto di discussione. Dunque, era manifestamente infondata la dedotta violazione dell'art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., la quale si ha esclusivamente quando l'anomalia motivazionale si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'