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Ripartizione delle spese condominiali di manutenzione e derogabilità della disciplina civilistica

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Sono valide le delibere assembleari che dispongono una differente partecipazione dei condòmini alle spese del condominio, in deroga alla normativa di riparto delle spese di cui all’art. 1123 c.c., e che si pongono in esecuzione del regolamento condominiale accettato dai proprietari nei singoli atti di compravendita. Ciò è quanto ha affermato la Suprema Corte con l’ordinanza n. 3588 dell’8 febbraio 2024.

IL CASO

Lucrezia, proprietaria di un appartamento con cantina e di due garages facenti parte del condominio Alfa, impugnava la delibera condominiale con cui il Condominio aveva approvato il consuntivo della gestione degli anni 2013-2014, deducendo la violazione degli artt. 1123 c.c. e 1126 c.c. Secondo l’attrice, il Condominio era formato da 8 palazzine multipiano e da un edificio di un solo piano dell’altezza di 3 metri fuori terra con lastrico solare sovrastante gli immobili rientranti nella sua proprietà. Lucrezia contestava l'erronea applicazione dell'art. 1123 c.c. in ordine alla ripartizione delle spese deliberate dall’assemblea condominiale per dotare i tetti delle 7 palazzine multipiano di linee vita. Si costituiva il condominio Alfa per resistere al ricorso deducendo innanzitutto che il condominio era dotato di un unico Regolamento e di un'unica tabella millesimale, richiamata nei singoli atti di vendita, che derogava agli artt. 1123, 1125 e 1126 c.c.; dal momento che il sistema di suddivisione di qualsivoglia spesa per la conservazione delle parti comuni poteva essere modificato per convenzione, l'accettazione da parte dei condòmini della tabella millesimale predisposta dal venditore-costruttore ed allegata ai singoli contratti di vendita degli alloggi rendeva legittimo il sistema di riparto adottato nella delibera impugnata. Il Tribunale rigettava la domanda di annullamento della delibera assembleare in virtù del fatto che le tabelle millesimali erano state predisposte dal costruttore-venditore ed accettate e recepite dagli acquirenti con i singoli atti pubblici d'acquisto; nel caso di specie, l'art. 3 del Regolamento condominiale prevedeva che la ripartizione delle spese di ordinaria e straordinaria manutenzione dovesse essere effettuata in proporzione ai millesimi corrispondenti al valore della proprietà esclusiva. La pronuncia di prime cure veniva confermata dai giudici del gravame, secondo i quali la delibera assembleare impugnata non aveva modificato il criterio legale di ripartizione delle spese per la conservazione delle parti comuni, limitandosi ad applicare le tabelle millesimali vigenti.

LA CENSURA

Lucrezia si rivolgeva alla Corte di Cassazione lamentando la falsa applicazione dell'art. 1123 c.c., in ordine all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., in quanto i giudici di secondo grado avevano ritenuto che l'esistenza di una tabella millesimale predisposta dal costruttore e contenuta in un Regolamento condominiale contrattuale potesse derogare alle norme previste dal comma 1 dell'art. 1123 c.c. in materia di riparto delle spese. Secondo la ricorrente, le previsioni normative contenute nel secondo e nel terzo comma dell'art. 1123 c.c. si riferiscono a spese diverse rispetto a quelle contemplate nel primo comma, ossia a quelle di cui non tutti i condòmini possono usufruire; per queste spese, il comma 2 dell'art. 1123 c.c. sancisce che, se si tratta di cose destinate a servire i condòmini in misura diversa, vanno ripartite in proporzione all'uso che ciascuno può fare. Sia il secondo che il terzo comma escluderebbero che le spese ivi previste possano essere suddivise in proporzione ai millesimi di proprietà. Lucrezia asseriva che l'art. 3 del Regolamento del condominio si riferisse alle spese previste nel comma 1 dell'art. 1123 c.c., ossia soltanto quelle da cui tutti i condòmini possono trarre utilità in egual modo prevedendo la suddivisione in proporzione ai millesimi, con la sola eccezione di quelle concernenti il riscaldamento e gli ascensori per le quali prevedeva deroga al criterio millesimale. Dal momento che il Regolamento condominiale non contemplava nulla in ordine alle spese di cui al secondo e terzo comma dell'art. 1123 c.c., la ripartizione sarebbe dovuta avvenire secondo le norme del Codice Civile.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Cassazione dava torto a Lucrezia. I giudici di legittimità stabilivano che “Alla stregua della stessa lettera dell'art. 1123 c.c., la disciplina legale della ripartizione delle spese per la conservazione ed il godimento delle parti comuni dell'edificio è, in linea di principio, derogabile, con la conseguenza che deve ritenersi legittima la convenzione modificatrice di tale disciplina, contenuta nel regolamento condominiale di natura contrattuale, ovvero nella deliberazione dell'assemblea, quando approvata da tutti i condomini”. Invero, nella vicenda posta al vaglio degli Ermellini, il sistema di riparto delle spese condominiali era disciplinato dalle tabelle contrattuali predisposte dal costruttore-venditore, recepite e accettate da ciascun acquirente attraverso singoli contratti di compravendita. Detto Regolamento era costituito da un'unica tabella millesimale riferita all’intero condominio che derogava agli artt. 1123, 1125 e 1126 c.c.; la delibera successivamente adottata dall’assemblea condominiale con la quale il condominio Alfa aveva approvato il consuntivo della gestione degli anni 2013-2014, dunque, pur derogando alla disciplina di cui all’art. 1123 c.c., in quanto imponeva un riparto delle spese sostenute per l’impianto delle “linee vita” anche in capo ai condomini delle unità immobiliari non direttamente interessate dall’installazione, era valida poiché conforme al Regolamento di condominio. Dunque, la delibera impugnata si poneva in esecuzione del Regolamento condominiale accettato dai proprietari nei singoli atti di compravendita, nella parte anche in deroga alle disposizioni di riparto delle spese di cui all’art. 1123 c.c. In virtù dei suddetti principi, la Corte Suprema rigettava il ricorso.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Emissioni rumorose in condominio: è disturbo della quiete pubblica?

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Con la sentenza n. 2071/2024, la Corte di Cassazione, pronunciandosi in tema di rumori molesti in condominio, ha precisato in quali casi ciò configura il reato di disturbo della quiete pubblica.

IL CASO

Il Tribunale condannava Sempronio e Mevia alla pena di 200,00 euro di ammenda ciascuno, ritenendoli responsabili del reato di cui all'art. 659 c.p. per aver provocato all'interno del loro appartamento dalla fine dell'ottobre 2017 fino al 10 marzo 2018 nelle prime ore del mattino emissioni rumorose, eccedenti la normale tollerabilità.

LA CENSURA

Gli imputati, per il tramite del loro difensore, si rivolgevano alla Suprema Corte deducendo, in particolare, il vizio di violazione di legge riferito all'art. 659 c.p., rilevando come le uniche persone che avevano lamentato rumori molesti provenienti dal loro appartamento fossero Tizia e Caia, entrambe residenti nell'appartamento sottostante al proprio all'interno dello stesso stabile, senza che nessun altro condomino avesse mai svolto proteste o denunce al riguardo né avesse reso testimonianza in tal senso nell'istruttoria dibattimentale. Eccepivano che nessun accertamento fosse stato svolto relativamente all'idoneità potenziale della fonte sonora a diffondersi all'interno del fabbricato, né alle sue caratteristiche, neppure essendo stato verificato se si trattasse di un'emissione costante o occasionale o ricorrente nel tempo, ed in tal caso con quale cadenza, né fosse mai intervenuta la PG ad effettuare ricognizioni o controlli sul posto; pertanto, gli imputati sostenevano l'inidoneità del disturbo, quand'anche ritenuto tale, ad integrare la fattispecie penalmente rilevante prevista dall'art. 659 c.p., per il cui perfezionamento è necessario, trattandosi di un illecito ricompreso fra quelli di natura "vagante", che venga leso l'interesse al riposo o a svolgere le proprie occupazioni di una cerchia indeterminata di soggetti, così da arrecare turbamento alla pubblica quiete. Pertanto, Sempronio e Mevia contestavano l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui i rumori provenienti dall'abitazione degli imputati sarebbero stati percepiti anche da altri condòmini, trattandosi di risultanza mai emersa dall'espletata istruttoria, ribadendo che nessun altro soggetto residente nello stabile era mai stato sentito in dibattimento, né antecedentemente nel corso delle indagini, che nessuna lamentela proveniente da soggetti diversi dalle due denuncianti era stata acquisita agli atti e che neanche risultavano denunce o azioni civili proposte nei loro confronti.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Cassazione dava ragione a Sempronio e Mevia precisando che “In tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l'esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso, integra: A) l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma 2, della legge 26 ottobre 1995, n. 447, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in materia; B) il reato di cui al comma 1 dell'art. 659, cod. pen., qualora il mestiere o la attività vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete; C) il reato di cui al comma 2 dell'art. 659 cod. pen., qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o prescrizioni della Autorità che regolano l'esercizio del mestiere o della attività, diverse da quelle relativa ai valori limite di emissione sonore stabiliti in applicazione dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995”. Inoltre, i giudici di legittimità chiarivano che il disturbo alla pubblica quiete ricorre soltanto nel caso in cui il rumore molesto sia percepito o comunque sia percepibile da un numero indistinto di persone e non già dai componenti di un solo nucleo familiare residente nella stessa unità abitativa. Poiché nella vicenda posta al vaglio degli Ermellini le emissioni rumorose erano state avvertite esclusivamente dalle condomine dell’appartamento sottostante e non anche dal resto dei comunisti, non poteva trattarsi di disturbo alla pubblica quiete. Pertanto, il Tribunale Supremo accoglieva il ricorso e annullava la sentenza impugnata.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


L’amministratore non recupera le spese condominiali: quali conseguenze?

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Con l’ordinanza n. 36277 del 28 dicembre 2023, la Suprema Corte ha precisato che è tenuto a risarcire il condominio l’amministratore che non agisce contro i condòmini morosi per il recupero delle spese condominiali.

IL CASO

Tizio citava in giudizio il condominio Alfa domandando la condanna del convenuto al pagamento del complessivo importo di euro 5.074,03 a titolo di compensi e rimborsi spese per il periodo in cui egli aveva ricoperto la carica di amministratore del condominio medesimo. Costituitosi in giudizio, il Condominio si opponeva alla domanda attorea e formulava una domanda riconvenzionale per sentir condannare Tizio al risarcimento dei danni procurati al Condominio nell’ambito dell’attività gestionale. Il giudice di prime cure accoglieva la domanda principale nei limiti dell’importo di euro 388,90, mentre rigettava la domanda riconvenzionale. A seguito di appello principale di Tizio ed incidentale del Condominio, i giudici di secondo grado rigettavano il gravame principale e accoglievano parzialmente quello incidentale condannando Tizio a pagare al Condominio la somma di euro 20.905,17. La Corte distrettuale rilevava l’inadempimento di Tizio ai propri obblighi di amministratore per non aver promosso azioni giudiziarie finalizzate al recupero delle spese condominiali non versate dai soci morosi e in particolar modo dalla società Beta; l’inerzia preservata a lungo da Tizio aveva condotto alla impossibilità definitiva del recupero del credito dal momento che la predetta società era stata cancellata dal Registro delle Imprese.

LA CENSURA

Tizio si rivolgeva alla Corte di Cassazione deducendo, in particolare, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1130, 1 co. n. 3 c.p.c. e dell’art. 63, 1 co. disp. att. c.p.c. in ordine all’art. 360, co. 1 n. 3 c.p.c. Il ricorrente asseriva che la sentenza aveva considerato negligente il comportamento dell’amministratore valorizzando in particolare la mancata iniziativa di riscossione coattiva dei crediti del condominio Alfa nei confronti della società Beta in virtù di una normativa sopravvenuta costituita dalla L. n. 220/2012 che, in quanto sopravvenuta, non avrebbe potuto essere applicata.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Cassazione dava torto a Tizio. Secondo i giudici di legittimità, la sentenza impugnata aveva correttamente ritenuto che Tizio avrebbe potuto proporre ricorso per decreto ingiuntivo ottenendo anche la provvisoria esecuzione dello stesso ed iscrivere ipoteca giudiziale sugli immobili in vendita, in modo tale da scongiurare il rischio che la società debitrice, venendo cancellata dal registro delle imprese, non potesse essere più un soggetto escutibile. Inoltre, gli Ermellini sottolineavano la non sussistenza di alcun vizio di sussunzione in ordine ad una normativa sopravvenuta, in quanto, anche antecedentemente all’entrata in vigore della L. n. 220/2012 non applicabile ratione temporis, l’amministratore era tenuto a provvedere al recupero dei crediti del Condominio ai sensi dell’art. 1130, 1° co. n. 3 c.c. nonché ex art. 63 disp. att. c.c. In virtù di ciò, il Supremo Consesso rigettava il ricorso di Tizio.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Condominio, terrazza a livello: quale natura?

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Con l’ordinanza n. 27846 del 3 ottobre 2023, la Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi in materia condominiale, ha chiarito che la terrazza a livello è bene di proprietà del condominio.

IL CASO

Il Tribunale rigettava l’appello proposto da Tizio alla sentenza del Giudice di Pace, che aveva rigettato la sua impugnazione alla delibera dell’assemblea del condominio Alfa. La delibera aveva preso atto delle infiltrazioni di acqua provenienti dalla terrazza del condomino Caio verso il sottostante immobile del condomino Sempronio, del degrado del parapetto e del cornicione della medesima terrazza e, con l’astensione dalla votazione del condomino Tizio, aveva deliberato di eseguire i lavori di ripristino della pavimentazione della terrazza, del cornicione e del parapetto, approvando le relative spese e il loro riparto. Il giudice di merito: • rilevava che si trattasse di terrazza a livello, con caratteristiche assimilabili a quelle del lastrico solare, dal momento che la terrazza si trovava alla sommità dell’edificio, era direttamente accessibile dall’unità immobiliare adiacente, di proprietà del condomino Caio, e svolgeva funzione di copertura dell’edificio, sebbene solo parzialmente, essendo circondata dal tetto; • rilevava che l’uso esclusivo della terrazza che ne faceva il proprietario dell’unità immobiliare annessa non rendesse il lastrico di proprietà esclusiva, ma incidesse solamente sulla ripartizione delle spese;
• ritenuto che i lavori di manutenzione erano stati determinati dalle infiltrazioni di acqua provenienti dal lastrico, dovute al deterioramento della guaina impermeabilizzante, e avevano avuto a oggetto la pavimentazione, il parapetto e il cornicione e perciò la struttura del lastrico di proprietà comune, rigettava la censura dell’appellante secondo cui si trattava di spese in favore della proprietà esclusiva e considerava legittima l’applicazione del criterio di riparto previsto dall’art. 1126 c.c.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

Tizio si rivolgeva alla Cassazione, la quale gli dava torto. I giudici di legittimità precisavano che “La terrazza a livello, con funzione di copertura dei vani sottostanti, deve ritenersi bene di proprietà condominiale ex art. 1117 cod. civ. in quanto, svolgendo la medesima funzione del lastrico solare, è necessaria all’esistenza stessa del fabbricato; non osta a tale conclusione la circostanza che a essa si acceda da un appartamento contiguo, al cui servizio pertinenziale la terrazza sia destinata, perché occorre che la deroga all’attribuzione legale al condominio, con assegnazione della terrazza a livello in proprietà risulti da uno specifico titolo”. Per gli Ermellini, “Per titolo, diversamente da quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, non si intende il titolo del soggetto individuato come proprietario della terrazza, ma deve intendersi l'atto costitutivo del condominio -ossia il primo atto di trasferimento di un'unità immobiliare dell'originario proprietario ad altro soggetto, con conseguente frazionamento dell'edificio in più proprietà individuali-, ove questo contenga in modo chiaro e inequivoco elementi tali da escludere l'alienazione del diritto di condominio, non rilevando a tal fine quanto stabilito nel regolamento condominiale, ove non si tratti di regolamento allegato come parte integrante al primo atto d'acquisto trascritto, ovvero di regolamento espressione di autonomia negoziale, approvato o accettato col consenso individuale dei singoli condomini e volto perciò a costituire, modificare o trasferire i diritti attribuiti ai singoli condomini dagli atti di acquisto o dalle convenzioni”. In virtù di ciò, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Distacco del condomino dall’impianto di riscaldamento centralizzato e onere della prova

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Con l’ordinanza n. 26185 dell’8 settembre 2023, la Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi in materia condominiale, ha fornito alcune precisazioni sul distacco dall’impianto centralizzato di riscaldamento da parte del singolo condomino. Nella fattispecie esaminata, Sempronio citava in giudizio il condominio Alfa impugnando una delibera condominiale limitatamente ai punti 1 e 3 dell’ordine del giorno, con i quali il Condominio, nel riparto delle spese di riscaldamento, gli aveva attribuito l’onere di pagamento pro quota anche delle spese relative al consumo, pur essendosi, il Condomino, distaccato ai sensi dell’art. 1118 c.c. Altresì, Sempronio domandava l’accertamento della legittimità del distacco e la non derivabilità dallo stesso di squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condòmini, con conseguente domanda di dichiarazione della debenza delle sole spese di manutenzione straordinaria e di conservazione e messa a norma. Instaurato il contraddittorio, nella resistenza del Condominio che proponeva domanda riconvenzionale di accertamento dell’illegittimità del distacco per violazione dell’art. 1118 c.c., il Tribunale, disposta ed espletata CTU, rigettava le domande attoree e accoglieva la domanda riconvenzionale del condominio Alfa. Innanzitutto, il giudice di prime cure, richiamando le conclusioni del CTU, rilevava che il distacco operato dall’attore comportava un aggravio delle spese dei consumi per gli altri condòmini, determinato anche dal fatto che Sempronio, nell’operare il distacco, non aveva provveduto ad installare un autonomo impianto di riscaldamento, usufruendo quindi del calore prodotto dai radiatori degli altri condòmini; in secondo luogo, il Tribunale osservava che la delibera in cui Sempronio affermava essere stato implicitamente autorizzato al distacco non risultava agli atti del procedimento e che anzi, da altra successiva delibera, si desumeva che il Condominio, chiedendo pareri legali in ordine ad un “eventuale” distacco dall’impianto centralizzato e in ordine al quale andava determinato “il danno economico subito dai restanti condomini”, il Condominio si riservava in realtà ogni decisione in merito. I giudici di merito dichiaravano inammissibile l’appello proposto da Sempronio. Poiché la vicenda approdava in Cassazione, quest’ultima dava torto al condomino ricorrente. I giudici di legittimità stabilivano che “Il diritto potestativo di ciascun condomino di abdicare dall'uso dell'impianto comune di riscaldamento, affinché possa costituirsi un impianto autonomo, opera sempre che l'interessato provi che dal distacco deriverà una effettiva proporzionale riduzione delle spese di esercizio e non si verificherà un pregiudizio del regolare funzionamento dell'impianto centrale stesso: segnatamente che da tale disattivazione non derivi né un aggravio di spese per coloro che continuano a fruire del riscaldamento centralizzato, né uno squilibrio termico dell'intero edificio, pregiudizievole per la regolare erogazione del servizi”. Altresì, gli Ermellini sottolineavano che l'art. 1118 c.c., come modificato dalla legge n. 220/2012, permette al condomino di distaccarsi dall'impianto centralizzato - di riscaldamento o di raffreddamento - condominiale allorché una siffatta condotta non determini notevoli squilibri di funzionamento dell'impianto stesso o aggravi di spesa per gli altri condòmini, e dell'insussistenza di tali pregiudizi quel condomino deve fornire la prova, attraverso preventiva informazione corredata da documentazione tecnica, salvo che l'assemblea condominiale abbia autorizzato il distacco sulla base di una propria, autonoma valutazione del loro non verificarsi. In siffatta evenienza, il condomino autorizzato a rinunziare all'utilizzo del riscaldamento centralizzato e a distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall'impianto comune rimane obbligato a pagare le sole spese di conservazione di quest'ultimo - quali, ad esempio, quelle di sostituzione della caldaia -, in quanto l'impianto centralizzato è comunque un accessorio di proprietà comune, al quale egli potrà, in caso di ripensamento, riallacciare la propria unità immobiliare. In virtù di ciò, i giudici di legittimità rigettavano il ricorso.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'