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Contributi previdenziali non versati: il lavoratore può agire contro l’INPS?

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Con la sentenza n. 701 del 9 gennaio 2024, la Corte di Cassazione ha precisato che in caso di mancato versamento dei contributi previdenziali da parte del datore, il lavoratore non può agire contro l’INPS, neanche qualora l’ente previdenziale, nonostante la sua denuncia, non abbia provveduto al recupero dei contributi dovuti dal datore.

IL CASO

I giudici del gravame rigettavano l’appello proposto da Tizio nei confronti della decisione del giudice di prime cure che aveva disatteso la sua domanda volta ad ottenere dall’INPS la regolarizzazione della sua posizione contributiva, con accreditamento dei contributi omessi nel periodo settembre 2012-agosto 2013 dal proprio ex datore di lavoro e certificazione degli stessi nell’estratto conto assicurativo. In particolare, i giudici di secondo grado, nonostante reputassero che la contribuzione relativa al periodo in contestazione non si fosse prescritta, sulla scorta di una pronuncia di legittimità (Cass. n. 2164/2021), ritenevano che, al di fuori delle specifiche ipotesi previste dalla legge, nessuna azione potesse riconoscersi al lavoratore per ottenere l’accredito dei contributi da parte dell’ente previdenziale, residuando semmai in suo favore l’azione risarcitoria di cui all’art. 2116 comma 2, c.c., nonché la speciale azione volta alla costituzione della rendita vitalizia di cui all’art. 13, L. n. 1338/1962.

LA CENSURA

Tizio si rivolgeva alla Suprema Corte lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2116 c.c. e 27, comma 2, r.d.l. n. 636/1939 (nel testo risultante dalla modifica apportata dall’art. 23-ter, d.l. n. 267/1972, conv. con L. n. 485/1972, e rafforzato dall’art. 3, d.lgs. n. 80/1992), nonché dell’art. 54, L. n. 88/1989, in quanto i giudici d’appello avevano ritenuto, pur affermando che il termine di prescrizione dei contributi non fosse ancora spirato, che egli non avesse alcun diritto all’accredito da parte dell’INPS dei contributi omessi dal proprio ex datore di lavoro. Secondo il ricorrente, dall’art. 2116, comma 1, c.c., e dall’art. 54, L. 88/1989, deriva il diritto all’integrità della posizione contributiva già costituita attraverso accredito automatico dei contributi non prescritti il cui versamento sia stato omesso in tutto o in parte dal datore di lavoro, ai fini della percezione delle prestazioni previdenziali di cui all’art. 2114 c.c. Pertanto, Tizio chiedeva ai giudici di legittimità se questo diritto potesse essere esercitato nei confronti dell’INPS.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Cassazione dava torto a Tizio. Gli Ermellini sottolineavano che “Il nostro ordinamento non prevede alcuna azione dell’assicurato volta a condannare l’ente previdenziale alla regolarizzazione della sua posizione contributiva, nemmeno nell’ipotesi in cui l’ente previdenziale, che sia stato messo a conoscenza dell’inadempimento contributivo prima della decorrenza del termine di prescrizione, non si sia tempestivamente attivato per l’adempimento nei confronti del datore di lavoro obbligato: ciò che residua in tali casi in favore dell’assicurato è unicamente il rimedio risarcitorio nei confronti del datore di lavoro di cui al secondo comma dell’art. 2116 c.c., salva la possibilità del lavoratore di surrogarsi in luogo del datore (e di esser tenuto indenne da quest’ultimo) per la costituzione della rendita vitalizia di cui all’art. 13, l. n. 1338/1962”. Per i giudici di piazza Cavour, sussiste un litisconsorzio necessario iniziale tra il lavoratore, il datore di lavoro e l’ente previdenziale soltanto in presenza di una domanda del lavoratore volta all’ottenimento della condanna del datore di lavoro a versare all’ente i contributi omessi, in funzione della necessità di assicurare un risultato utile alla parte attrice. Nella vicenda esaminata, una domanda del genere non era stata affatto proposta dal ricorrente, avendo piuttosto quest’ultimo preteso di ottenere dall’INPS ciò che non aveva ritenuto di chiedere al suo ex datore di lavoro. In virtù di ciò, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Sì al licenziamento del lavoratore che non timbra quando esce per la pausa pranzo

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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30418/2023, ha stabilito che rischia il licenziamento il dipendente che abbandona il posto di lavoro per la pausa pranzo senza timbrare.

IL CASO

Il Tribunale respingeva il ricorso con il quale Sempronia, collaboratrice amministrativa presso l’istituto Gamma, aveva impugnato il licenziamento disciplinare che le era stato irrogato dal MIUR. Secondo il giudice di primo grado, le condotte ascritte alla dipendente, che in cinque occasioni nell’anno 2017 si era allontanata dall’istituto Gamma per tutta la durata della pausa pranzo senza strisciare il badge sia all’uscita che al rientro, non erano contestate nella loro materialità e integravano la fattispecie di cui all’art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001. I giudici d’appello rigettavano il gravame proposto dalla lavoratrice nei confronti del MIUR, dell’Ufficio scolastico territoriale Alfa e dell’Ufficio scolastico regionale Beta, avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale.

LA CENSURA

Sempronia si rivolgeva alla Suprema Corte lamentando la violazione ed errata applicazione delle norme di diritto di cui agli artt. 2106, 2119, 1455, c.c., della norma di cui all’art. 55- quater, del d.lgs. n. 165 del 2001, comma 1, lett. a), 1-bis e 3, così come da modifiche di cui al d.lgs. n. 116 del 2016, dell’art. 12 del CCNL Comparto istruzione e ricerca triennio 2016-2018, nonché degli artt. 3 e 35, Cost., in ordine all’art. 360, n. 3, c.p.c. Secondo la ricorrente, i giudici del gravame avevano applicato l’art. 55-quater, commi 1, lett. a), 1-bis e 3, e aveva richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale è da escludere qualunque automatismo nell’irrogazione della sanzione disciplinare espulsiva, ma erroneamente non aveva considerato gli elementi volti ad attenuare l’intensità dell’elemento soggettivo e la gravità del comportamento assunto dalla dipendente relativamente alla sanzione disciplinare comminata.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

I giudici di piazza Cavour davano torto a Sempronia chiarendo che nella fattispecie esaminata veniva in rilievo “il licenziamento disciplinare per falsa attestazione della presenza sul luogo di lavoro, concretizzatasi non già mediante materiale alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza, bensì “con altre modalità fraudolente” e cioè la mancata timbratura dell’uscita dall’ufficio, non autorizzata”. Secondo il Supremo Consesso, “La condotta di rilievo disciplinare se, da un lato, non richiede un'attività materiale di alterazione o manomissione del sistema di rilevamento delle presenze in servizio, dall'altro deve essere oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, sicché anche l'allontanamento dall'ufficio, non accompagnato dalla necessaria timbratura, integra una modalità fraudolenta, diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale”. Dal piano di lavoro del personale ATA per l’a.s. 2016/2017, richiamato dai giudici di merito, emergeva che l’accertamento della presenza sul posto di lavoro del personale doveva avvenire attraverso la timbratura elettronica del badge personale e che nel caso di dimenticanza del badge bisognava segnalare tempestivamente la cosa al DGSA. Per di più, dalla comunicazione n. 98 del 17 gennaio 2009 risultava che il personale ATA dell’istituto Gamma fosse stato specificamente informato delle modalità di utilizzo del badge e dell’obbligo di procedere alla timbratura in ogni occasione di assenza dal luogo di lavoro per motivi personali. Pertanto, le condotte di Sempronia non potevano essere giustificate o comunque valutate con minor rigore soltanto perché poste in essere in coincidenza dell’orario della pausa pranzo, atteso che era chiara a tutto il personale l’esistenza dell’obbligo di procedere alla timbratura anche nel caso di assenza per recarsi a pranzo. In virtù di ciò, la Suprema Corte rigettava il ricorso della dipendente.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Il datore deve provare l’impossibilità di repechage

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La mancata dimostrazione, a carico del datore di lavoro, dell’impossibilità del repêchage, ossia di una proficua riutilizzazione del lavoratore in mansioni corrispondenti al proprio livello di inquadramento contrattuale o anche a mansioni inferiori tenendo conto, peraltro, non di tutti i compiti astrattamente attribuibili al dipendente ma solamente di quelli coerenti con il proprio bagaglio tecnico professionale, determina l’illegittimità del licenziamento del lavoratore. Tale principio è stato enunciato dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 30102 del 30 ottobre 2023.

IL CASO

I giudici d’appello, in riforma della sentenza appellata dall’associazione Alfa, rigettavano l'impugnativa di licenziamento per giustificato motivo oggettivo proposta da Sempronia condannando la parte appellata alla rifusione delle spese del doppio grado di giudizio. I giudici di secondo grado rilevavano che la contrazione dell'attività dell'associazione che gestiva una casa di riposo era dimostrata dalle prove in atti, in particolare dal prospetto statistico relativo alla media degli ospiti presenti in struttura redatto dalla testimone Caia, segretaria amministrativa; in base a ciò, poteva ritenersi confermata la progressiva riduzione nel corso del tempo dell'afflusso di anziani presenti nella casa di riposo, tenuto conto degli standard organizzativi prescritti dalla convenzione stipulata con il Comune Beta (un ausiliario ai servizi tutelari per 15 utenti per 2 turni). Non valeva a smentire tale assunto la circostanza accertata in giudizio circa l'impiego stabile, nella funzione di assistente tutelare, di personale della cooperativa cui erano stati esternalizzati solo i servizi di pulizia, trattandosi di un modus operandi in atto già da prima del licenziamento di Sempronia.

LA CENSURA

A questo punto, Sempronia si rivolgeva alla Suprema Corte deducendo, in particolare, la violazione e la falsa applicazione degli articoli 3 e 5 della Legge 604/1966, relativamente all'articolo 360, n. 3 c.p.c. ed in subordine in relazione ai nn. 4 e 5, per non avere la Corte territoriale accertato l'impossibilità del repêchage ovvero di una differente collocazione della dipendente licenziata nonostante il contenuto del ricorso introduttivo e della sentenza di primo grado (che aveva correttamente concluso, sul punto, nel senso che il datore di lavoro non aveva fornito la prova dell’impossibilità del repêchage). Resisteva con controricorso l’associazione Alfa.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Cassazione dava ragione alla lavoratrice Sempronia. I giudici Ermellini specificavano che “Il giustificato motivo oggettivo è composto da tre elementi fondamentali: la soppressione del posto di lavoro in forza di una ragione organizzativa; il nesso causale tra la ragione addotta, la soppressione del posto e il lavoratore licenziato; la dimostrazione, a carico del datore di lavoro, della impossibilità del repêchage, e cioè di una proficua riutilizzazione del lavoratore in mansioni corrispondenti al proprio livello di inquadramento contrattuale o anche a mansioni inferiori tenendo in considerazione, peraltro, non tutti compiti astrattamente attribuibili al dipendente ma solo quelli coerenti con il proprio bagaglio tecnico professionale. La carenza anche soltanto di uno di questi elementi (o di più di uno) determina l’illegittimità del licenziamento”. Nella vicenda esaminata, non era stato riscontrato alcun accertamento sull’impossibilità del repêchage, né poteva considerarsi fondata la tesi formulata in proposito nel controricorso, secondo cui i giudici d’appello avrebbero escluso la possibilità di un repêchage in modo implicito, avendo accertato la diminuzione dei ricoveri e della contrazione dell'attività ed avendo tenuto conto, ai fini occupazionali, degli standard organizzativi prescritti dalla convenzione stipulata con il Comune Beta (un ausiliario ai servizi tutelari per 15 utenti per 2 turni). I giudici di legittimità chiarivano che il repêchage richiede un accertamento in concreto dell’organico presente in azienda all’epoca del licenziamento, piuttosto che la conformità a degli standard astratti e della impossibilità di una utile ricollocazione del dipendente in mansioni, anche inferiori, confacenti con il suo bagaglio professionale. L’accertamento in questione non era stato effettuato dalla Corte, la quale si era soffermata sul numero degli utenti e degli addetti standard, senza invece esprimersi sulle unità lavorative presenti in azienda. Dal canto suo, l’associazione controricorrente si era limitata a sostenere che Sempronia non aveva indicato l'esistenza di una posizione lavorativa disponibile, senza tuttavia considerare che, secondo l’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, mentre incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell'esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l'impossibilità del cd. "repechage", ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore (Cass. 12101/2016), restando escluso alcun onere di allegazione e prova in capo al lavoratore (Cass. n. 24882/2017). In virtù di ciò, il Tribunale Supremo accoglieva la censura della lavoratrice Sempronia.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Caduta del lavoratore e onere della prova in capo al datore

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La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 25217/2023, ha affermato che il datore di lavoro ha l’onere di provare l’assenza di responsabilità in caso di caduta dalle scale del lavoratore.

IL CASO

I giudici di secondo grado respingevano l'appello di Tizia, lavoratrice domestica, avverso la sentenza del giudice di prime cure che aveva rigettato la sua domanda volta a far dichiarare che la responsabilità dell'infortunio subito mentre lavorava su una scala per rimuovere delle tende, fosse ascrivibile al datore di lavoro Caio, il quale doveva, pertanto, essere condannato a risarcirle i danni. La Corte territoriale, a fondamento della decisione, premetteva che il lavoratore che agisca per riconoscimento del risarcimento del danno per infortunio sul lavoro è tenuto a dimostrare, oltre al fatto costituente l'inadempimento, anche l'esistenza di un nesso di causalità tra l'inadempimento ed il danno alla salute patito. Altresì, rilevava, quanto alla dinamica dei fatti, che nella fattispecie la lavoratrice avesse il compito di occuparsi di lavare le tende della casa di Caio nei cambi di stagione e che per poter arrivare a sfilare le tende dagli appositi ganci era necessario salire su uno scaleo; solitamente, l'operazione veniva effettuata con l'ausilio dello stesso Caio, mentre nel caso di specie la domestica al momento del fatto aveva deciso di occuparsi da sola della rimozione delle tende dall'apposito sito, e risultava che Caio si fosse assentato temporaneamente per andare a svolgere alcune commissioni nei negozi sottostanti la sua abitazione. Dunque, secondo i giudici d’appello, mancava la prova che fosse stato Caio ad impartire a Tizia l'ordine di compiere quella operazione pur in sua assenza; inoltre, non vi era prova alcuna che lo scaleo usato non possedesse una base stabile o antiscivolamento, né certo la presenza di un tappeto sul quale lo scaleo sarebbe scivolato poteva essere addebitabile al datore di lavoro assente, potendo essere facilmente rimosso dalla domestica. La vicenda approdava in Cassazione, che dava ragione alla lavoratrice.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Suprema Corte precisava che la responsabilità datoriale che consegue alla violazione delle norme dettate in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro ha natura contrattuale, in quanto il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge (ex art 1374 c.c.) dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza che entra così a far parte del sinallagma contrattuale. Il datore di lavoro deve, dunque, rispondere degli stessi eventi lesivi occorsi al prestatore di lavoro sulla base delle regole della responsabilità contrattuale (e quindi in base alla prescrizione decennale, all'inversione dell'onere della prova e nei limiti dei danni prevedibili) e la sua responsabilità può discendere da fatti commissivi o da comportamenti omissivi. In quest’ottica occorre l’accertamento della colpa che va dimostrato secondo quanto sancito dall’art. 1218 c.c. Pertanto, secondo i giudici di legittimità, “Grava sul datore “debitore di sicurezza” l'onere di provare di aver ottemperato all'obbligo di protezione, mentre il lavoratore creditore deve provare sia la lesione all'integrità psico-fisica, sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l'espletamento della prestazione lavorativa”. In altri termini, mentre il lavoratore deve allegare e provare l’esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno ed il nesso causale di questo con la prestazione, il datore è tenuto a dimostrare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno. Nella vicenda esaminata i giudici di merito avevano invertito l’onere della prova. In virtù di ciò, il Tribunale Supremo accoglieva il ricorso di Tizia.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Indennità di trasferta: alcune sentenze rilevanti

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Va nettamente distinto il “trasfertista abituale” dal lavoratore che va in trasferta, perché solo per il primo ricorrono cumulativamente le seguenti condizioni: a) la mancata indicazione, nel contratto o nella lettera di assunzione, della sede di lavoro; b) lo svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità; c) la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di un’indennità o maggiorazione di retribuzione “in misura fissa”, attribuite senza distinguere se il dipendente si sia effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta. (Cass. Civ. Sez. L., 24/07/2023, n. 22171)

L’indennità di trasferta percepita dal lavoratore ha natura retributiva – e va, pertanto, assoggettata ad Irpef – nei limiti stabiliti dall’art. 51, comma 5, TUIR, ovvero per la parte eccedente l’importo di € 46,48 al giorno, al netto delle spese di viaggio, per le trasferte fuori del territorio comunale, e senza alcun limite per le trasferte nell'ambito del territorio medesimo. Presupposto del relativo diritto è il temporaneo comando del lavoratore a prestare la propria opera in un luogo diverso da quello in cui deve abitualmente eseguirla, a prescindere dalla sua effettiva residenza o dall’ubicazione della sede aziendale; scopo dell’indennità, infatti, è quello di compensare i disagi derivanti dal temporaneo espletamento del lavoro in luogo diverso da quello previsto. (Cass. Civ. Sez. V, 14/07/2023, n. 20412)

In tema di indennità di trasferta del medico per svolgere attività di ambulatorio al di fuori del proprio comune di residenza, le somme erogate a titolo di spese di viaggio sono previste dall’art. 86 dell’Accordo collettivo nazionale del 23 maggio 2005, quali spese di viaggio per recarsi dal luogo di residenza a quello di svolgimento dell’attività. Orbene, l’art. 51, comma 5, del d.P.R. n. 917/1986, prevede una imponibilità ridotta (ovvero nulla per i rimborsi spese a piè di lista), per le indennità percepite per le trasferte o missioni che il lavoratore compie al di fuori del territorio comunale ove è ubicata la sede di lavoro. (Cass. Civ. Sez. V, 16/06/2023, n. 17316)

L'art. 7 quinquies del d.l. n. 193 del 2016 (conv. con modif. in I. n. 225 del 2016) - ha introdotto una norma retroattiva autoqualificata di "interpretazione autentica" del comma 6 dell'art. 51 del d.P.R. n. 917 del 1986, con la quale si è stabilito, al comma 1, che i lavoratori rientranti nella disciplina prevista dal comma 6 sono quelli per i quali sussistono contestualmente le seguenti condizioni: a) la mancata indicazione, nel contratto o nella lettera di assunzione, della sede di lavoro; b) lo svolgimento di un'attività lavorativa che richiede la continua mobilità; c) la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell'attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di un'indennità o maggiorazione di retribuzione "in misura fissa", attribuite senza distinguere se il dipendente si sia effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta, e che, in caso di mancata contestuale esistenza delle suindicate condizioni, è riconosciuto il trattamento previsto per le indennità di trasferta di cui al comma 5 del medesimo art. 51. (Cass. Civ. Sez. VI, 12/04/2022, n. 11793)

In tema di contributi dovuti per i regimi assicurativi dei lavoratori operanti all’estero, in Paesi extracomunitari con i quali non sono in vigore accordi di sicurezza sociale, ai fini della individuazione della base imponibile contributiva, deve aversi riguardo alla retribuzione effettivamente corrisposta, e non alle retribuzioni convenzionali individuate con i d.m. richiamati dall’art. 4, comma 1, del d.l. n. 317 del 1987, conv. dalla l. n. 398 del 1987, restando inapplicabile il comma 8 bis dell’art. 48 del d.P.R. n. 917 del 1986 (poi divenuto 51 per effetto del d.lgs. n. 344 del 2003), che opera esclusivamente a fini fiscali; ne consegue che, ove l’indennità di trasferta corrisposta al lavoratore abbia natura retributiva, alla luce del suo carattere stabile e non contingente, va computata ai fini dell’individuazione della fascia di retribuzione convenzionale da applicare a fini contributivi. (Cass. Civ. Sez. L., 25/02/2022, n. 6294)

L’art. 20 del c.c.n.l. autoferrotranvieri del 23 luglio 1976 individua la “tratta a cui l’agente appartiene” quale elemento strutturale utile per l’individuazione della residenza di servizio, sicché essa, in ragione delle mansioni in concreto svolte dai dipendenti (nella specie, operatori di esercizio, addetti alla conduzione di autobus) e del luogo in cui vengono espletate, è idonea a costituire riferimento per l’assegnazione delle sede ed il riconoscimento dell’indennità di trasferta. (Cass. Civ. Sez. L., 29/10/2021, n. 30802)

Il trasferimento non consiste nella temporanea assegnazione del lavoratore ad un diverso luogo di lavoro, per fronteggiare temporanei incrementi di lavoro, poiché il trasferimento da una unità produttiva all’altra comporta un mutamento definitivo e non temporaneo del luogo di lavoro; come tale il trasferimento va tenuto distinto dalla trasferta, che invece si caratterizza per la temporaneità dell’assegnazione del lavoratore ad una sede diversa da quella abituale. (Trib. Venezia Sez. L., 14/09/2021, n. 505)

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'