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L’amministratore non recupera le spese condominiali: quali conseguenze?

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Con l’ordinanza n. 36277 del 28 dicembre 2023, la Suprema Corte ha precisato che è tenuto a risarcire il condominio l’amministratore che non agisce contro i condòmini morosi per il recupero delle spese condominiali.

IL CASO

Tizio citava in giudizio il condominio Alfa domandando la condanna del convenuto al pagamento del complessivo importo di euro 5.074,03 a titolo di compensi e rimborsi spese per il periodo in cui egli aveva ricoperto la carica di amministratore del condominio medesimo. Costituitosi in giudizio, il Condominio si opponeva alla domanda attorea e formulava una domanda riconvenzionale per sentir condannare Tizio al risarcimento dei danni procurati al Condominio nell’ambito dell’attività gestionale. Il giudice di prime cure accoglieva la domanda principale nei limiti dell’importo di euro 388,90, mentre rigettava la domanda riconvenzionale. A seguito di appello principale di Tizio ed incidentale del Condominio, i giudici di secondo grado rigettavano il gravame principale e accoglievano parzialmente quello incidentale condannando Tizio a pagare al Condominio la somma di euro 20.905,17. La Corte distrettuale rilevava l’inadempimento di Tizio ai propri obblighi di amministratore per non aver promosso azioni giudiziarie finalizzate al recupero delle spese condominiali non versate dai soci morosi e in particolar modo dalla società Beta; l’inerzia preservata a lungo da Tizio aveva condotto alla impossibilità definitiva del recupero del credito dal momento che la predetta società era stata cancellata dal Registro delle Imprese.

LA CENSURA

Tizio si rivolgeva alla Corte di Cassazione deducendo, in particolare, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1130, 1 co. n. 3 c.p.c. e dell’art. 63, 1 co. disp. att. c.p.c. in ordine all’art. 360, co. 1 n. 3 c.p.c. Il ricorrente asseriva che la sentenza aveva considerato negligente il comportamento dell’amministratore valorizzando in particolare la mancata iniziativa di riscossione coattiva dei crediti del condominio Alfa nei confronti della società Beta in virtù di una normativa sopravvenuta costituita dalla L. n. 220/2012 che, in quanto sopravvenuta, non avrebbe potuto essere applicata.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Cassazione dava torto a Tizio. Secondo i giudici di legittimità, la sentenza impugnata aveva correttamente ritenuto che Tizio avrebbe potuto proporre ricorso per decreto ingiuntivo ottenendo anche la provvisoria esecuzione dello stesso ed iscrivere ipoteca giudiziale sugli immobili in vendita, in modo tale da scongiurare il rischio che la società debitrice, venendo cancellata dal registro delle imprese, non potesse essere più un soggetto escutibile. Inoltre, gli Ermellini sottolineavano la non sussistenza di alcun vizio di sussunzione in ordine ad una normativa sopravvenuta, in quanto, anche antecedentemente all’entrata in vigore della L. n. 220/2012 non applicabile ratione temporis, l’amministratore era tenuto a provvedere al recupero dei crediti del Condominio ai sensi dell’art. 1130, 1° co. n. 3 c.c. nonché ex art. 63 disp. att. c.c. In virtù di ciò, il Supremo Consesso rigettava il ricorso di Tizio.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Il punto della Cassazione sul risarcimento del danno micropermanente

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Con la sentenza n. 37477/2022, la Suprema Corte si è pronunciata in tema di risarcimento del danno micropermanente. Gli Ermellini hanno specificato che “In materia di risarcimento del danno da c.d. micro-permanente, il D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 139, comma 2, nel testo modificato dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 32, comma 3 – ter, inserito dalla legge di conversione L. 24 marzo 2012, n. 27, va interpretato nel senso che l’accertamento della sussistenza della lesione temporanea o permanente dell’integrità psico-fisica deve avvenire con rigorosi ed oggettivi criteri medico-legali; tuttavia l’accertamento clinico strumentale obiettivo non potrà in ogni caso ritenersi l’unico mezzo probatorio che consenta di riconoscere tale lesione a fini risarcitori, a meno che non si tratti di una patologia, difficilmente verificabile sulla base della sola visita del medico legale, che sia suscettibile di riscontro oggettivo soltanto attraverso l’esame clinico strumentale”. Inoltre, “Il D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 139, come modificato dalla L. n. 27 del 2012 e dalla L. n. 124 del 2017, valorizza (e, al contempo, grava di maggiore responsabilità) il ruolo del medico legale, imponendo a quest’ultimo la corretta e rigorosa applicazione di tutti i criteri medico legali di valutazione e stima del danno alla persona (e cioè il criterio visivo, il criterio clinico ed il criterio strumentale): tali criteri non sono tra di loro gerarchicamente ordinati e neppure vanno unitariamente intesi, ma vanno tutti prudentemente utilizzati dal medico legale, secondo le legis artis, nella prospettiva dell’”obiettività” del complessivo accertamento, che riguardi sia le lesioni che i relativi eventuali postumi. Pertanto, sarà risarcibile anche il danno da micropermanente, i cui postumi non siano suscettibili di accertamenti strumentali, a condizione che l’esistenza di detti postumi possa affermarsi sulla base di una ineccepibile e scientificamente inappuntabile criteriologia medico legale”. Secondo i giudici di legittimità, “In tema di responsabilità civile da circolazione, le spese sostenute dal danneggiato per l’attività stragiudiziale svolta in suo favore da una società infortunistica, diretta sia a prevenire il processo sia ad assicurarne un esito favorevole, ancorché detta attività possa essere svolta personalmente, costituiscono un danno emergente, che, se allegato e provato, deve essere risarcito ai sensi dell’art. 1223 c.c.. L’utilità di dette spese, in funzione della possibilità di porle a carico del danneggiante, anche in caso di danno da micropermanente, dev’essere valutata ex ante, con specifico riferimento alle circostanze del singolo caso concreto (tra esse compresa il grado di esperienza e di conoscenza tecnico legale dell’interessato), avuto riguardo a quello che poteva ragionevolmente presumersi essere l’esito del futuro giudizio”. Il Tribunale Supremo ha anche sottolineato che ad impedire il risarcimento del danno alla salute con esiti micropermanenti non è di per sé l’assenza di riscontri diagnostici strumentali, bensì l’assenza di una ragionevole inferenza logica della sua esistenza stessa, che ben può essere compiuta sulla base di qualsivoglia elemento probatorio o indiziario, a condizione che in quest’ultimo caso munito dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Demansionamento illegittimo e risarcimento del danno

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La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 3131 del 2 febbraio 2023, ha specificato che in caso di demansionamento illegittimo del dipendente, quest’ultimo ha diritto al risarcimento del danno pari al 25% della retribuzione percepita nel periodo del demansionamento. I giudici d’appello confermavano la sentenza di primo grado che, dopo aver accertato l’illegittimità del mutamento di mansioni disposto dalla società Gamma nei confronti di Sempronia, aveva condannato la datrice di lavoro a riassegnare la dipendente alle mansioni in precedenza svolte o ad altre equivalenti, nonché al risarcimento del danno quantificato in via equitativa in 12.290,75 euro, corrispondente al 25% della retribuzione all'epoca goduta per ciascun mese di demansionamento. La società Gamma si rivolgeva alla Suprema Corte lamentando, in particolare, la violazione e la falsa applicazione dell'art. 2103, comma 2, c.c. e dell'art. 41 Cost. censurando la sentenza impugnata in base alla considerazione che erano state esaminate circostanze non rilevanti ai fini della valutazione del rispetto della norma codicistica e che la Corte territoriale, in violazione del principio costituzionale di libertà di iniziativa economica, si era sostituita alla valutazione, spettante alla società, circa la complessiva utilità dell'operazione, come non consentito. I giudici di piazza Cavour, nel ritenere la censura inammissibile, evidenziavano che l’art. 2103 c.c. contempla l’assegnazione del prestatore a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella stessa categoria legale, soltanto qualora intervenga una modifica degli assetti organizzativi dell’azienda, incidente sulla posizione del lavoratore; contrariamente, si configura un demansionamento illegittimo per il quale il lavoratore può chiedere il risarcimento del danno. Per gli Ermellini, nella vicenda esaminata, i giudici del gravame, piuttosto che sostituirsi alla società nella valutazione di opportunità e convenienza della riorganizzazione, in violazione del principio di libertà economica di cui all'art. 41 Cost., si erano limitati a rilevare l’insussistenza in fatto dei presupposti legali per il demansionamento di Sempronia, senza in alcun modo argomentare circa il diritto o meno della società di procedere alla riorganizzazione. Pertanto, il Tribunale Supremo dichiarava il ricorso inammissibile e condannava parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Il lavoratore che svolge l’attività in luogo insalubre ha diritto al risarcimento del danno morale

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La Cassazione, con l’ordinanza n. 19621 del 17 giugno 2022, ha stabilito che, qualora il prestatore di lavoro eserciti la sua attività in un luogo insalubre, allo stesso spetta la liquidazione di un danno morale, determinato dalla paura per la sua salute, indipendentemente dall’esistenza di un danno biologico certificato. Nella vicenda in esame, gli eredi di un lavoratore ricorrevano in giudizio per ottenere il risarcimento del danno morale patito dal prestatore defunto a causa dell’esposizione all’amianto e ad altri agenti morbigeni di quest’ultimo, nell’espletamento della sua attività lavorativa. I giudici di secondo grado escludevano il riconoscimento del danno morale, in quanto non consideravano sufficiente a tal fine la prova del mero svolgimento dell’attività lavorativa in un ambiente insalubre. Secondo la Corte territoriale, era necessaria la prova di un effettivo turbamento psichico. Poiché la vicenda approdava in Cassazione, quest’ultima, accogliendo il ricorso, affermava che il danno morale può essere provato mediante presunzioni e indizi, configurando una sofferenza interiore che, al pari di tutti i moti dell’animo, è difficilmente accertabile scientificamente. Difatti, per gli Ermellini, mediante le presunzioni è possibile giungere alla configurazione di un danno consistente nell’offesa alla personalità morale del lavoratore, quotidianamente sottoposto al timore per la propria salute, al punto da alterare le sue abitudini di vita. I giudici di legittimità sottolineavano che “il danno derivante dallo sconvolgimento dell'ordinario stile di vita è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, rafforzati dalla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, art. 8”. Il Tribunale Supremo, inoltre, evidenziava che, nella vicenda esaminata, i giudici del gravame non avevano correttamente applicato i suddetti principi di diritto, anche in considerazione del fatto che, nell'atto introduttivo del giudizio, espressamente richiamato nel ricorso di legittimità, erano stati prodotti gli elementi da utilizzare ai fini della prova presuntiva della sofferenza morale.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


DANNO DA VACANZA ROVINATA E RISARCIMENTO

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Con l’ordinanza n. 3150 del 2 febbraio 2022, la Suprema Corte di Cassazione ha trattato il tema della responsabilità per danno da vacanza rovinata, chiarendo se spetta o meno al turista il risarcimento del danno a seguito di una vacanza non rispondente a quanto pubblicizzato dall’agenzia viaggi. La vicenda in esame aveva ad oggetto una vacanza fatta nel 2013, quindi prima che intervenissero le modifiche al Codice del Turismo nel 2018 e quando la responsabilità del fornitore di pacchetti turistici "tutto compreso" era regolata dagli artt. 32 e ss. D.Lgs. 23/05/2011, n. 79 (in seguito ampiamente modificato dal D.Lgs. 21.5.2018, n. 62). Il Tribunale Supremo richiamava l’art. 43, comma 1, del D.Lgs. n. 79 del 2011, che, prima delle modifiche del 2018, disponeva che "l'organizzatore e l'intermediario sono tenuti al risarcimento del danno, secondo le rispettive responsabilità". Gli Ermellini sottolineavano che l'espressione "secondo le rispettive responsabilità", in base a consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, significa che l'intermediario di viaggi risponde delle obbligazioni tipiche di un mandatario o venditore. Contrariamente, l’intermediario, ossia colui che vende, “non è responsabile degli inadempimenti dell'organizzatore o della non rispondenza dei servizi effettivamente offerti a quelli promessi e pubblicizzati, a meno che il viaggiatore o il turista non dimostri che l'intermediario, tenuto conto della natura degli inadempimenti lamentati, conosceva o avrebbe dovuto conoscere, facendo uso della diligenza da lui esigibile in base all'attività esercitata (art. 1176, comma 2, c.c.), l'inaffidabilità del tour operator cui si era rivolto, oppure la non rispondenza alla realtà delle prestazioni da quello promesse e pubblicizzate”.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'